Category: TV&Movies

Awake

Awake (NBC)

Awake (NBC)

Se vi piacciono i serial di fantascienza che hanno a che fare con realtà parallele e/o il discorso dei sogni, non potete assolutamente perdervi Awake, in onda da pochi giorni sulla NBC. Un plot, a mio parere, che sembra scritto da Philip K. Dick: il detective Britten è stato vittima di un brutto incidente d’auto, mentre viaggiava con moglie e figlio, e ora, di nuovo al lavoro, è seguito da uno psicologo che cerca di capire come sta superando il lutto. Peccato che non sia chiaro quale dei due famigliari è morto. Quando Britten si sveglia al mattino può infatti capitare che sia la moglie ad essere deceduta (e lui quindi ha a che fare con i problemi del figlio adolescente, disperato per la situazione), OPPURE può capitare che si svegli al fianco della moglie e che debba magari discutere con lei di un eventuale trasloco o di un nuovo bambino, perché lei vuole che la loro vita di coppia vada avanti, nonostante la dolorosa perdita del figlio. In ognuno dei due tipi di risveglio  deve comunque affrontare, per lavoro, casi di cronaca nera (casi differenti – anche se si scopre velocemente che sembrano avere punti di contatto), con gli stessi colleghi, ma con ruoli leggermente diversi. La parte migliore (per lo spettatore) riguarda l’assistenza psicologica assegnatagli dalla polizia, fornita da due persone totalmente diverse (un uomo orientale, una donna bianca) che “lottano” per cercare di convincerlo che è la LORO realtà quella “vera”, e che l’altra non è che un sogno, un modo della sua mente per gestire le conseguenze dell’incidente.

Perfettamente nel ruolo gli attori, spettacolare la costruzione della trama e gli intrecci. Contrariamente al protagonista di “Life on Mars” (serie con cui le assonanze sono percepibili, pur nell’enorme differenza di storia), Michael Britten non lotta per scoprire la verità, perché sa che solo in questa situazione di bilico può continuare a vedere sia la moglie sia il figlio. Ma ci si chiede, minuto dopo minuto, come possa non impazzire in questo continuo cambio di prospettiva, nel dovere saltare da un caso di polizia all’altro – giorno dopo giorno, nel cercare di gestire gli psicologi, e la sua vita.

Sperando che il resto non deluda, ammetto che il pilot mi ha colpito davvero più del previsto.

Ah – la psicologa (Cherry Jones) è la presidentessa USA delle ultime due serie di 24, il figlio (Dylan Minette) si è visto in Prison Break, Supernatural e, pure, Lost.

The River

È iniziata pochi giorni fa, con la messa in onda delle prime due puntate, la programmazione di un nuovo promettente serial che l’ABC è riuscita ad ottenere vincendo un’asta sui diritti che la vedeva contrapposta alla NBC. I confronti di The River con Lost, citati da più parti, sono probabilmente dovuti più che altro all’aspetto visivo della giungla in cui la storia si muove (anche se qui siamo da qualche parte lungo il Rio delle Amazzoni, e non su un’isola posizionata chissà dove), ma in effetti gli aspetti soprannaturali non mancano neppure in questa nuova produzione, come non mancano neppure personaggi interessanti, in una tenuta che ricorda parecchio quella degli isolani più famosi di sempre.

La trama è quella tipica di una certa letteratura horror d’altri tempi: un personaggio (il famoso esploratore Emmet Cole) è scomparso in uno dei suoi viaggi in Sud America, un viaggio di cui nessuno sembra sapere molto, e nel quale aveva deciso di non avere con sè alcune delle persone con cui di solito lavorava. Ma, dopo sei mesi di ricerche infruttuose, proprio quando ormai si inizia a celebrarne la morte, un segnale del suo dispositivo di soccorso viene intercettato e quindi moglie, figlio e una piccola squadra di persone partono per cercare di rintracciarlo. Quello che scopriranno, muovendosi nei meandri del rio è che quest’uomo – il cui motto è sempre stato “There’s magic out there”, parlando delle meraviglie della natura – in quest’ultima spedizione si era messo a cercare un aspetto della magia meno innocuo.

Bello il background e belle le relazioni tra i personaggi. Non così bella la scelta di regia di proporre il serial come mockumentary (cioè far finta che la spedizione sia ripresa in stile real tv e che noi stiamo guardando quelle riprese montate). Ma complessivamente le prime due puntate comunque “reggono” – nonostante parecchie “falle” e qualche scelta poco convincente – e viene davvero voglia di capire cosa è capitato (e dov’è ora) il signor Cole. Soprattutto sapendo che (almeno la prima stagione) dovrebbe essere contenuta tutta in solo otto episodi – garantendo così un certo sviluppo organico a questa avventura.

Tomboy

Girato con un budget abbastanza basso, e con praticamente tutti i giovani attori non professionisti (molti erano già compagni di giochi e amici tra di loro prima delle riprese), Tomboy, di Céline Sciamma, è davvero un bel film. Vincitore di parecchi premi nell’ambito di manifestazioni cinematografiche che hanno un occhio di riguardo per l’omosessualità, questa produzione francese risulta delicata e profonda, e, grazie principalmente all’ottima e (in scena) androgina Zoé Héran e alla splendida Malonn Lévanna (difficilmente si vede una bimba così apparentemente spontanea in un film), merita di avere un respiro di pubblico ampio e universale.

Più che di omosessualità  tout-court in questo film si parla comunque di identità sessuale. La protagonista Laure vuole essere un maschio e, grazie al corpo ancora acerbo e hai capelli corti, riesce a “diventare” Michael, una volta giunta in una nuova città, a causa del lavoro del padre. Il gioco non potrà chiaramente durare per sempre, ma la storia è questo suo momento di cambio di ruolo, con la sorellina che la sostiene, per l’aspetto di protezione che un maschio, a quell’età, sa dare, e la progressione affettiva che Lisa (Jeanne Disson) inizia nei suoi confronti, ignorando la verità.

Bella la regia, belli i dialoghi, i silenzi, le immagini. Ragazzini plausibili e in grado di tenere egregiamente lo schermo, forse, solo troppo “buoni”, senza nessuna vera cattiveria mai, in nessuno dei momenti del film.

Da vedere, se non siete allergici a priori ai ritmi della cinematografia d’oltre Alpe, più simile alla nostra, e così diversa a quella anglofona.

The Artist

Ammetto di non riuscire a comprendere assolutamente come chiunque possa avere pensato di produrre un film MUTO e in BIANCO E NERO al giorno d’oggi. E l’unico motivo che mi viene in mente è una scommessa persa.

Ma ammetto pure che Michel Hazanavicius (autore e regista di The Artist) è probabilmente un genio. Perché il suo film è davvero molto gradevole – incredibilmente gradevole – e il suo azzardo lo proietta a ragione nella storia del cinema, riuscendo in più ad ottenere la candidatura agli Oscar in ruoli non concepibili per un film straniero, appunto per il fatto che non c’è audio (!).

La storia è in linea con quella di un film di altri tempi: la caduta dell’eroe, salvato dall’amore di una donna. Ambientato nell’intorno dell’avvento del sonoro l’eccellente George ValentinJean Dujardin è un attore di gran fama, con un cane che adora e che lo affianca sul grande schermo, e una moglie, attrice anch’essa, che però non ama più. Non riuscendo ad accettare il passaggio al nuovo modo di fare cinema che via via prende piede, finisce in disgrazia, mentre una sua fan (Peppy Miller / Bérénice Bejo) prenderà il suo posto nel cuore degli spettatori.

Non è chiaramente la trama a rendere interessante questa produzione, quanto la bravura dei protagonisti, che sopperiscono alla mancanza della voce con una capacità espressiva davvero notevole, una efficace colonna sonora, attiva praticamente tutto il tempo che ben sa sorreggere i giochi, e tante intelligenti scelte di regia, che omaggiano davvero quel periodo storico in più di un modo.

Un film che stupisce – da consigliare se si accetta di mettersi almeno un po’ in gioco, perché se sulla distanza non si può che rimanere catturati dal ritmo proposto, è chiaro che nei primi minuti l’idea di alzarsi e uscire può davvero non sembrare troppo assurda – nel quale ottiene una menzione speciale anche il piccolo protagonista a quattro zampe, spalla di George Valentin, che ha davvero colpito, giustamente, la maggior parte della critica. Non più bravo di Rex (o Babe) ma perfetto per completare quel salto nel passato che il regista ha voluto realizzare.

Touch

Lo ammetto, quando ho visto cosa era stato annunciato lo scorso anno, tra tutte le novità, tre erano le cose su cui avevo le aspettative più alte: Ringer (con la Michelle “Buffy” Gellar), Alcatraz (per via di J.J.Abrams) e Touch, dove avrei avuto modo di vedere di nuovo all’opera Kiefer Sutherland. Purtroppo, come è capitato con Ringer, vedere un personaggio d’azione in un ruolo molto differente è stato un po’ un trauma, ma se nel caso di Ringer ho patito un po’ anche per la nuova ambientazione – troppo simile inizialmente a Lying Game – e il nuovo personaggio (doppio, ma ugualmente “povero”), non posso dire lo stesso con Touch. Complice la mano di Tim Kring (Heroes) qui siamo in una situazione con intrecci di alto livello, e le premesse per qualcosa di notevole ci sono tutte (un bambino autistico sembra in grado di prevedere il futuro – non dico altro). E, tranquilli, “Bauer” non perde neppure un briciolo di fascino, neppure quando si fa stendere con un pugno da una persona qualunque, e grazie a quello sguardo deciso, ma sempre un po’ smarrito, che lo ha contraddistinto in 24, non sembra affatto fuori ruolo.

Ma, volendo però essere onesti, mentre in Ringer già dal primo episodio si intuiva che eravamo di fronte ad una storia complessa che ci sarebbe stata rivelata senza soste puntata dopo puntata, qui, con Touch, è almeno possibile che ci siano episodi con “casi”, come in un poliziesco, senza che si vada necessariamente da nessuna parte. E, cercando proprio il pelo nell’uovo, Touch potrebbe essere solo una versione un-milione-di-volte-meglio di Person of Interest, dove, al posto del computer che predice il futuro di sangue (di una persona alla volta) studiando le tracce digitali che lasciamo quotidianamente, qui c’è un bimbo autistico che predice il futuro (roseo?) di tanti, tramite un quaderno pieno di numeri, e qualcosa che sembra collegato con i cellulari.

Vedremo.

Al momento sono solo contento di sapere che c’è di nuovo modo di vedere Sutherland sul piccolo schermo – e sono fiducioso che il regista – che ha creato un universo impressionante con Heroes – possa rifare la magia e proporre qualcosa da ricordare.

La talpa

C’è un regista svedese (Tomas Alfredson, quello di Lasciami entrare) dietro alla nuova trasposizione de La talpa, noto romanzo di John Le Carré, questa volta condensato in un film per il cinema di poco più di due ore. Una trama complessa per una storia di spie seria e curata, resa ancora più imponente da un cast di grandi attori, ma, a mio parere, affogata da scelte di regia, comprensibili tenendo conto dell’obiettivo, che rendono però il tutto spesso lento e quasi sempre poco comprensibile. Non siamo davanti ad un film alla 007 – e questo ce lo aspettavamo – quindi il problema non è che i personaggi siano spie di mezza età, che non vivono per il gesto atletico ma per il sotterfugio, per l’inganno. Ma piuttosto che il gioco dei flashback, e i passaggi temporali, non siano quasi mai evidenziati in modo chiaro, e che le relazioni tra i vari personaggi si perdano in scene che trasmettono più il periodo storico (gli anni ’70) che il progredire della trama. Una storia densa, da rivedere, che sembra avere colpito molto positivamente la critica internazionale, ma che forse non è alla portata di tutti – neppure di chi come me è appassionato di questo tipo di ambientazioni, ma non ha probabilmente una cultura adeguata per collegare i puntini, durante la visione, alla velocità corretta per godersi l’opera.

Ottimo, come dicevamo, il cast, in cui si mettono in evidenza anche i più giovani, e splendide le ricostruzioni e la fotografia.

Alcatraz

C’è anche la mano di J.J. Abrams dietro l’attesa nuova seria TV proposta dalla FOX, Alcatraz, e c’è anche Jorge Garcia (l’Hugo di Lost) tra i protagonisti principali. E se queste due cose, da sole, non vi sembrano un motivo abbastanza buono per dare almeno una occhiata, sappiate che le premesse per una storia con i fiocchi ci sono davvero tutte: un sacco di cattivi con uno scopo misterioso, salti nel tempo, una sezione segreta delle forze dell’ordine, un coppia di eroi bene assortita e una narrazione che procede su due piani (presente e passato).

Vi ho incuriosito? Beh, allora direi che vi posso svelare anche un po’ di background :-) : quando, nel 1963, il carcere di Alcatraz è stato chiuso non è accaduto per motivi di budget, e le persone presenti non sono esattamente state spostate sulla terra ferma. Semplicemente tutti i presenti sono scomparsi nel nulla – all’improvviso – senza un motivo comprensibile. E ora – intendo ai giorni nostri – i criminali spariti nel passato sembra che stiano iniziando a ricomparire, uno dopo l’altro. Non invecchiati di un solo giorno. E con più di un obiettivo in mente.

Vi ricorda qualcosa? Forse 4400? In effetti potete avere anche ragione, ma a dirla tutta la somiglianza è in realtà davvero ridotta. E comunque sia la base per quello che capiterà è intrigante e le cose che ci possono avere costruito sopra davvero moltissime. Se non ho capito male in realtà la maggior parte degli episodi saranno più di rintraccia e cattura che di sviluppo, come da prassi per la maggior parte dei serial in circolazione (anche Fringe o X-Files avevano la maggior parte delle puntate di “riempimento”). Ma la spina dorsale della narrazione dovrebbe comunque essere ben percepibile sempre, tenendo (si spera) altro l’interesse del pubblico, verso l’epicità che ci aspettiamo quando c’è di mezzo Abrams.

Che dire? L’inizio è promettente – e io ho sempre adorato Garcia. Ed è notevole vedere di nuovo in azione anche Sam Neill – dopo averlo apprezzato  nello splendido ma sfortunato Happy Town.

Drive

Drive 2011

Il protagonista de Le Idi di Marzo (Ryan Gosling) si è cimentato, sempre nell’ormai scorso anno, in un altro film che ha ottenuto critiche molto positive (93% su RottenTomatoes), intitolato Drive. Diretto dal danese Nicolas Winding Refn, qui Gosling non ha a che fare con la politica, ma con la mafia. Il protagonista – senza nome – driver-by-nature, ottimo stuntman e buon meccanico di giorno, arrotonda facendo da autista free-lance per rapine. Ma proprio quando le cose potrebbero iniziare a diventare più interessanti per lui (avrebbe infatti l’occasione di fare il pilota di NASCAR) qualcosa accade e tutto comincia ad andare in modo imprevedibile.

Impressionantemente simile, come sguardi e recitazione a Ben McKenzie (Ryan in The O.C.) in Southland, il protagonista si innamora della vicina di casa Irene (Carey Mulligan, Brigid in Walking Dead) e questo rompe il suo distacco nei confronti di ciò che lo circonda, finendo inevitabilmente nei guai.

Il film, tratto dall’omonimo romanzo di James Sallis, è ben strutturato. La violenza, che a tratti domina alcune scene, è resa normale e inevitabile da una progressione (vagamente) simile a Breaking Bad, con cui condivide lunghe scene di silenzi, momenti di attesa, dialoghi minimali ma carichi di atmosfera. Una storia abbastanza semplice, con risvolti forse non troppo originali, che diventa epica però nell’insieme. Per i personaggi, per la regia, per la notte e le giornate in una Los Angeles non Hollywoodiana. Che affascina e ricorda altri posti e altri film, facendo procedere il tutto in un ambito piacevolmente noto, mentre tutto diventa sempre più cupo e tragico. Senza quasi un motivo, o almeno senza uno reale. Bad luck, dice Bernie Rose quasi in finale. E quello sembra infatti. Solo cattiva fortuna.

Una nota merita poi Ron Perlman, qui in una parte sgradevole e importante. Perfettamente nel ruolo, con quel viso particolare, che ho avuto modo di vedere per la prima volta (credo) ne Il nome della Rosa, e che non avevo riconosciuto in HellBoy (dove è protagonista), è un malvivente credibile e un ottimo contralto per Bernie, suo socio.

Sherlock Holmes: A Scandal in Belgravia

E così, con un leggero ritardo sullo scheduling annunciato, anche il serial TV dedicato al detective nato dalla mente di Sir Arthur Conan Doyle è ricominciato. E la seconda stagione si è aperta con un episodio piuttosto interessante, intitolato A Scandal in Belgravia. Non vi dirò come continua la scena in piscina con Moriarty (che chiudeva la terza puntata della season one) ma come era prevedibile qualunque cosa capiti non impedisce al nostro eroe (l’ottimo Benedict Cumberbatch) di affrontare un nuovo e intricato caso – che vede tra l’altro coinvolta la Regina, la CIA e tale Irene Adler (Lara Pulver), dominatrix per passione e professione, che saprà stimolare un lato di Holmes che non avevamo ancora visto.

Gli attori, anche in questa nuova avventura, sono in grado di tenere egregiamente il ruolo loro assegnato, e l’ambientazione moderna (ricordo che questa Sherlock è ambientato nella Londra odierna, e che Watson, impersonato egregiamente da Martin Freeman, racconta le avventure del suo compagno sul suo blog) è davvero intrigante da confrontare con quella classica. Chiaro, il paragone con la recente uscita sul grande schermo è inevitabile, e anche se i protagonisti e la regia di Gioco d’ombre sono superiori, tutto si può dire fuorché che questa serie abbia problemi a tenere il passo. Anche qui siamo di fronte ad un prodotto di altissimo livello, frenetico, ben orchestrato, memorabile. Qualcosa non proprio per tutti (ogni tanto è davvero difficile comprendere tutte le implicazioni in quanto si osserva e qualche scena viene voglia di guardarla al rallentatore), ma da valutare assolutamente, certo, se i gialli e le spy stories proprio non sono oltre il vostro gusto.

Ah – un’ultima piccola curiosità: Freeman (Watson) sarà Bilbo Baggins nel film (di Jackson, in prossima uscita) The Hobbit. Nello stesso film ci sarà (con una parte minore) anche Cumberbatch (Holmes).

Prince of Persia – Le sabbie del tempo

Tra le tante (forse troppe) opere cinematografiche che derivano da videogiochi ce n’è almeno una (uscita nelle sale nel 2010) che è stata in grado di ottenere un buon successo di pubblico senza tradire troppo l’ambientazione su cui è stato ricavata. Questo film, diretto da Mike Newell (regista anche di Harry Potter e il Calice di Fuoco) ha una storia indipendente dall’omonimo episodio della saga di Prince of Persia (videogame), ma riesce ad agganciarsi comunque a vari punti della trama “originale” e a veicolare (grazie alle scelte di ripresa, e alla plasticità dei tanti salti e combattimenti di DastanJake Gyllenhaal) il feeling da joypad a tal punto che spesso, durante la visione, si ha quasi un tic nervoso col pollice alla ricerca del pulsante “salta”.

Anche in questo film le riprese d’ambientazione – soprattutto della città di Alamut – sono mozzafiato, e la cura nei combattimenti e negli effetti speciali fornisce allle scene d’azione quella frenesia ormai consolidata che ci si aspetta da un prodotto di questo genere.

Gli attori sono poi tutti molto nel ruolo. Sia il protagonista (che non solo si è distinto anche nel recente SourceCode ma che si è fatto sicuramente amare come Donnie in Donnie Darko), sia la bella principessa di Alamut (Gemma Arterton – Fields in Quantum of Solace) sia, infine, l’ottimo Ben Kingsley, qui con un ruolo non proprio Ghandiano.

Bello, anche se forse un po’ prevedibile il finale, ma probabilmente migliori vari altri momenti durante lo svolgimento della storia, nonostante l’altalenante ruolo dei fratelli e la parte più “comica” che, a mio parere, ricorda qualcosa di Guerre Stellari.

Se non avete avuto modo (magari anche per scelta) di vederlo sul grande schermo quando è uscito, la visione in DVD o BluRay – in questo momento di feste – può regalare un paio d’ore di relax senza lasciare in bocca nessuno di quei fastidiosi mugugni che spesso sono inevitabili dopo qualche film del genere, quando non così curati o quando qualcosa, nell’alchimia che devono avere tutti gli aspetti di queste produzioni, è stato semplicemente preferito al resto.

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