A più di un anno dal primo annuncio, SyFy Channel ci mostra finalmente il pilot di Rewind, pur non fornendo nessuna informazione sul fatto che possa poi diventare una serie attiva, al di là di questo primo momento di circa un paio d’ore. Il tema è quello (che adoro) del viaggio nel tempo, e le motivazioni che spingono la storia (almeno inizialmente) sono una bomba atomica fatta esplodere a New York da un vecchio professore che ha perduto anni prima la moglie. Il viaggio nel passato, per evitare quest’atto distruttivo, avviene grazie ad un “portale” che appare all’interno di un gigantesco macchinario segreto – portale inatteso, non compreso a pieno, e con la caratteristica di non potere essere comandato e di avere un tempo massimo di apertura – e vede in azione un team di tre persone (due militari e una civile) coordinati da una schiera di tecnici che rimangono in contatto con loro dal presente (!).
Se si accettano alcune peculiarità nella trama (ma i paradossi e le stranezze vanno accettate a scatola chiusa quando si parla di time travel) la storia funziona, alcuni personaggi sono particolarmente carismatici e interessanti (stiamo parlando di SyFy, quindi il ritmo e le battute sono all’ordine del giorno), e la previsione dei ripples temporali (delle modifiche al continuum, una volta compiuta una azione) tramite un supercomputer non è più forzata di tante altre cose che abbiamo visto in altre serie. Certo, forse il tutto ricorda varie cose, ma se Rewind dovesse partire sono convinto che la seguirei molto volentieri. Incrocio le dita.
Ah, qualche nota di colore: tra le guest star c’è David Cronenberg (sì, quel David Cronenberg) e tra i membri del team che c’è un fenomenale Jeff Fahey (il Lapidus di Lost) con cappellino sempre in testa, vinili che suonano Jazz, e caffé da tostare fresco per rendere al meglio.
Tratto dall’omonimo romanzo di Mohsin Hamid, e diretto dalla pluripremiata regista indiana Mira Nair, Il fondamentalista riluttante è un film interessante e ben costruito. Non è una spy story, né un thriller in senso stretto e, anche se ha come protagonista principale Riz Ahmed (che ho apprezzato nello splendido Four Lions), e vede in scena Kiefer “Bauer” Sutherland (in versione giacca cravatta e occhiali) e Liev Schreiber (di Ray Donovan, per intenderci), costruisce la narrazione con lentezza e cura, e propone pochi momenti d’azione, e solo funzionali alla storia. Storia che ci parla del pakistano Changez, del suo sogno americano che lo porterà da Lahore a Wall Street, con tanto di love story con la bella (ma complicata) Erica, e di come tutto cambierà per lui con l’11 settembre – quando l’america multietnica diventerà molto più ostile con i suoi concittadini (anche benestanti) d’aspetto arabo. E di come le cose non sono sempre come sembrano, e di come sia necessario, per il Pakistan, un “sogno pakistano”.
130 minuti di continui flashback, con tanta musica indiana (ma nessun balletto), tantissimi temi proposti, bravi attori e bella regia. Forse il finale (credo diverso dal libro) lascia un po’ perplessi (io almeno mi aspettavo qualcosa di più netto) ma complessivamente è difficile criticare questa pellicola se non, forse, per la lunghezza. Da vedere, se non vi aspettate (tenendo conto del titolo e degli attori) esplosioni e sparatorie.
Se non disdegnate immergervi in mondi da fiaba (senza che siano simultaneamente classificabili come fantasy), vi consiglio senza remore Ernest e Celestine, film d’animazione ispirato dagli album di Gabrielle Vincent, e sceneggiato da Daniel Pennac. Il disegno ad acquerello è caldo e magico, e sorregge una storia di diversità che si apprezzano, nonostante l’opinione dei più. In un mondo di orsi e topi, un mondo in cui gli orsi vivono sopra, e i topi sotto, uscendo dalle loro tante quasi solo per rubare i denti caduti ai piccoli d’orso, Celestine decide di non avere paura, e fa amicizia con Ernest, un orso che vive da solo, goloso e alternativo, con il quale andrà a vivere. Due anime libere, con doti d’artista, che si ritroveranno contro entrambe le società, fino all’inevitabile lieto fine. Va ammesso che Ernest (in italiano con la bella voce di Claudio Bisio) non si fa problemi a fare il ladro (per fame svuota una pasticceria… e questo mi lascia un attimo perplesso quando si accenna in tribunale ad una contrapposizione tra ricchi e poveri), ma al di là di qualche mio dubbio specifico, tutto rimane nei canoni della favola con morale, in un contesto complessivo gradevole, divertente, e davvero godibile.
Se non vi dispiace guardare film indipendenti, e il genere che sconfina tra la fantascienza e il thriller psicologico rientra nelle vostre corde, vi consiglio di dare una occhiata a “Sound of my Voice“, una realizzazione del 2011 scritta e diretta da Zal Batmanglij e Brit Marling che si è fatta apprezzare sia al Sundance Film Festival sia al SXSW Film Festival di quell’anno.
I protagonisti, Christopher Denham (visto in Argo) e Nicole Vicius, stanno cercando di fare un film documentario per esporre una strana setta segreta, che ruota intorno a Brit Marling (che ha spazio anche in The company you keep). Maggie (questo è l’alter ego nel film della Marling) dichiara di venire dal futuro e di stare selezionando un gruppo di persone per prepararle alle catastrofi che stanno per accadere, e vive nascosta in un luogo segreto a cui i seguaci vengono portati bendati, dopo un periodo di iniziazione esterno. I due sono riusciti ad infiltrarsi nel gruppo ma ora il contatto con la carismatica presunta time-traveller metterà in crisi le loro certezze, presentando allo spettatore un film lento ma ben strutturato, in cui l’aspetto psicologico e la tensione crescente sopperiscono senza problemi all’assoluta mancanza di effetti speciali.
Un finale non banale chiude bene una storia in cui comunque qualcosa lascia insoddisfatti – ma che fa ugualmente scattare l’applauso virtuale ai due sceneggiatori. Consigliato, se amate il genere.
Come capitato per l’ottimo The Killing, anche in questo caso gli States sono andati a saccheggiare le produzioni danesi recuperando una serie crime che in patria ha avuto parecchio successo: The Bridge. Il ponte (bridge) originale citato nel titolo è quello che separa la Danimarca dalla Svezia, mentre quello della FX unisce invece il Messico agli USA. Entrambe le serie iniziano con la scoperta di un cadavere esattamente a metà del ponte (un cadavere particolare, si scoprirà a breve) il che causerà una investigazione congiunta delle due (molto diverse) forze di polizia. Nella versione USA è divertente notare una certa italianità nel poliziotto messicano (Marco Ruiz), ma quello che credo sia l’elemento principale è la figura del detective Sonya Cross, disturbata e con evidenti problemi nelle relazioni interpersonali. Che dire? Se The Killing mi ha lasciato senza parole dalle primissime battute, per l’atmosfera e per i personaggi, in The Bridge la cosa non è proprio capitata. Sembra un bel telefilm, la storia sembra bella e articolata. Ma non mi ha colpito, con il pilot, né per l’originalità, né per l’ambientazione. Vedremo se i personaggi, e la sceneggiatura, saranno in grado di trasmettere quel qualcosa di indefinito che una serie crime deve avere per diventare cult.
E alla fine ho ceduto ai tanti commenti positivi degli amici, e anche io ho guardato le prime puntate di Hannibal, serial TV prodotto da NBC, che si colloca come prequel dei film basati sui romanzi di Thomas Harris, con Hannibal Lechter come protagonista principale. Ho ceduto, convinto che mi sarei trovato di fronte a qualche di appena passabile, se non proprio imbarazzante, dopo aver visto che per il quasi equivalente Bates Motel avevano già fatto il miracolo, realizzando qualcosa di molto bello e intelligente. Intendo, era davvero possibile che da due classici dell’horror (Psycho e Il silenzio degli innocenti) potessero derivare DUE prequel, entrambi degni di essere guardati? Insomma, anche il più ottuso dei bookmaker avrebbe detto che questa doppia coppia non poteva avere grosse possibilità di uscire.
E invece devo ammettere che gli amici avevano ragione, e che la mia titubanza era completamente ingiustificata. Hannibal è un telefilm da non perdere (chiaro, se si ama il genere, perché qui di sangue ne scorre parecchio, e non siamo proprio sulla stessa lunghezza d’onda neppure di Dexter) che segue la bella progressione dell’agente speciale Will Graham (interpretato da Hugh Dancy), e del suo rapporto con il dottor Hannibal Lechter (che qui ha gli occhi di ghiaccio di Mads Mikkelsen – perfettamente nella parte). Pochi i volti a me noti (unica grossa eccezione Laurence Fishburne di Matrix nei panni del capo di Graham) ma tutto il cast è di alto livello, e contribuisce non poco a rendere l’atmosfera di questa produzione cupa ma affascinante.
Ah, giusto per informazione, sappiate che questa prima stagione con tredici puntate sarà seguita (almeno) da una seconda, la cui realizzazione inizierà in agosto.
Se vi piacciono le storie forti, sappiate che da poco è iniziato un nuovo serial prodotto da Showtime (quella di Dexter per intenderci) intitolato Ray Donovan, che ha subito mostrato i muscoli già dalle prime battute. Ray è uno specialista, chiamato dai ricchi di Hollywood quando hanno dei grossi problemi da risolvere, che si muove con la sua squadra spesso al di là del lecito. Ha vari fratelli (e, scoprirà, anche un fratellastro), ognuno con la sua dose di peculiarità, una moglie, due figli, e un padre appena uscito di prigione con il quale non vorrebbe avere più nulla a che fare. E una ex cliente un po’ troppo affezionata. E un cliente attuale non proprio contento dei suoi servizi.
Una storia che ricorda (come ritmo e tinte) Luther, e che è ben sorretta dal carisma di Liev Schreiber (nei panni di Ray) e di Jon Voight (nei panni di Mickey, il padre di Ray) – attori che (se avete seguito un mio consiglio di qualche tempo fa, avrete anche già visti insieme in The Manchurian Candidate). Un noir atipico, con un protagonista che vorrebbe essere freddo, ma che si ritrova continuamente a minacciare (o picchiare) persone in preda all’ira. Una storia famigliare che sembra quasi una storia di mafia, per chi ama l’azione, ma solo quando è collegata ad una narrazione solida quanto (in questo caso) disperata. Ah, l’autore dietro a Ray Donovan è Ann Biderman – lo stesso di Southland.
Se vi ho incuriosito vi invito a leggere una recensione migliore e più dettagliata della mia a questo indirizzo.
Quando ho saputo che avevano fatto un film basato su Odd Thomas di Dean Koontz ho trattenuto a stento un sorriso. Il libro mi è piaciuto (e adoro l’autore) ma mi sono chiesto subito cosa ne poteva venire fuori, e, soprattutto, come avrebbero fatto con Elvis. Insomma, ero preparato a una trasposizione appena passabile, spinta dall’enorme successo che questo personaggio (presente in una serie di romanzi, dopo il fortunato esordio) aveva avuto all’estero. Ma quanto Stephen Sommers (regista noto per La Mummia o Van Helsing) ha portato sul grande schermo è in effetti davvero notevole, tanto da avere il plauso – questo l’ho letto dopo la visione – anche dell’autore, di norma piuttosto ostile a questo tipo di passaggio. Read more »
Tra le interessanti riprese di questo periodo segnalo anche l’inizio della seconda stagione di Perception – crime drama che vede come protagonista Daniel Pierce (alias Erick McCormack), ovvero un neuropsichiatra (e professore universitario) con evidenti problemi mentali. Le sue conoscenze (come abbiamo avuto modo di scoprire l’anno scorso) lo rendono un utile aiuto per l’FBI (!) ma non tutte le persone a cui si rivolge quotidianamente sono reali – in primis la sua migliore amica, Natalie Vincent / Caroline Newsome (interpretata dall’affascinante Kelly Rowan di The O.C.). Dopo il bel finale della season one questa serie prosegue con una bella puntata (in cui vediamo anche in scena Scott Wolf, di V) che sembra far sperare bene per il proseguimento di questo serial.
Forse non tutti voi lo sapete, ma due giorni fa è iniziata una nuova serie TV, basata sul romanzo Under the Dome di Stephen King. Sceneggiata da Brian K. Vaughan (uno di quelli dietro a Lost, giusto per darvi una idea) e con Barbie interpretato da quel Mike Vogel che abbiamo apprezzato in Bates Motel, apre le danze (come nel libro) con la segregazione di Chester’s Mill dal resto del mondo, ad opera di una cupola invisibile apparsa all’improvviso. Read more »