Cinquemila chilometri al secondo

Ok, è vero, sembra proprio che io recensisca (o meglio, parli) quasi solo, per le cose in italiano, della Coconino Press. Il motivo non è che mi pagano per farlo (quando mai?) né che mi mandano loro copie omaggio per recensione (magari :-)…), ma solo che le loro edizioni sono piuttosto belle, ben distribuite, e piacciono a mia moglie (principale fonte di regali di questo tipo). Giacché cmq così è lei che mi sceglie le opere da gustare, capita spesso che io (ignorante quale sono) non conosca già alcuni degli autori che mi capitano tra le mani.

Spesso però questa cosa non è un grosso svantaggio, anzi. Perché non so infatti se avrei acquistato io Cinquemila chilometri al secondo (del giovane ma importante Manuele Fior, di Cesena) – tenendo conto che prediligo tematiche di genere. Perdendomi così una ottima graphic novel – dal tratto ad acquerello caldo e gradevole – con un plot leggero solo in superficie, che, raccontandoci di un amore che si sviluppa, contorcendosi, tra l’adolescenza e l’età adulta, ci dipinge quadri intensi e veri, che solleticano a più riprese la memoria e il sogno.

La storia di due amici per la pelle (Piero e Nicola) e di una ragazza (Lucy), del loro essere giovani insieme, dell’amore che nasce e che complica le cose, e dello separarsi, perché la vita è così, con Lucy che parte per la Norvegia e Piero, per seguire una passione che cresce a ritmi differenti, in Egitto. Per poi ritrovarsi, di nuovo in Italia, a distanza di anni. E in mezzo una telefonata, un momento in cui le cose iniziano a sedimentarsi, tra Oslo e l’Africa, con la voce che si sente in ritardo. Un secondo di delay, per via dei quasi cinquemila chilometri. Una poesia che diventa titolo.

Un testo da consigliare, premiato lo scorso anno in una importante competizione internazionale, con tavole delicate e mature, tutte da gustare.

Heat Wave

Credo che a tutti sia capitato di vedere un film tratto da un libro. E può anche essere capitato a qualcuno di leggere un libro derivato dalla sceneggiatura di un film (come Willow, giusto per citare il primo che mi viene in mente). Ma in questo caso, con Heat Wave, si va oltre, e parecchio. Perché qui si parla di un leggere un libro *scritto* da un personaggio di un telefilm. Un libro cioè che esiste (almeno inizialmente) SOLO dentro ad una fiction (Castle), scritto dal protagonista della stessa (Richard Castle). Un libro che fa *parte* della trama del telefilm (è il primo della nuova serie che l’autore scrive quando decide di imporre la propria presenza alla polizia di New York per seguirne i casi di omicidio, ispirato alla figura “reale” di Kate Beckett). Un libro quindi che propone una versione alternativa della squadra omicidi, in cui l’affascinante ma seria Beckett diventa la bella e disinibita Nikki Heat, e in cui l’autore (famoso autore di Thriller) ha Jameson Rook (famoso giornalista) come alter-ego. L’ambientazione è la stessa che vediamo in TV (New York, squadra omicidi, con un estroso esterno che segue le vicende per scriverne), e la storia ha la stessa struttura (si inizia con un omicidio, si finisce con il colpevole scoperto e arrestato). Quello che cambia è (un po’) il lessico dei personaggi e alcune delle scene a disposizione. Come si intuiva da quello che i personaggi dicono nella serie TV (e da quello che potevamo già capire anche dal titolo) qui qualche scena “bollente” c’è. Nulla di hard, nulla da tenere fuori dalla portata dei bambini. Ma abbastanza per sogghignare pensando a Beckett che legge di Heat di nascosto, un po’ vergognandosi, un po’ colpita dalla cosa. E’ un giallo/thriller che cambierà la storia del genere? No, assolutamente no. La struttura non è male, ma (almeno in italiano) sembra un po’ tirato via – come stile. E alla fine è “solo” una puntata in più della serie. Ma se la domanda è “lo consigli a qualcuno che apprezza Castle”, beh, in quel caso la risposta è assolutamente sì. La New York che si trova in queste pagine è gradevole, i personaggi sono simili ma non uguali, e non possiamo, da fan, non gradire della buona fan-fiction – scritta in questo caso all’interno della storia vera e propria. Ci sarebbe quasi da chiedersi se mai uscirà un libro firmato Jameson Rook – ma intanto possiamo gongolare un po’ sapendo che, nel caso ce ne venisse voglia, e potrebbe capitare, sono già disponibili (credo) altri due titoli by Richard Castle: Naked Heat e Heat Rises.

Ah – se qualcuno sa chi c’è dietro al nom-de-plume sarei contento me lo dicesse :-) – anche se forse è probabile che, come per la sceneggiatura direi, ci sia la mano di più di una persona.

Posizione di tiro

Carico di morte, noir, crudo e freddo, tanto coinvolgente quanto dannato. Così è Posizione di tiro, dell’autore Jean-Patrick Manchette, reso graficamente da Jacques Tardi (noto per l’eroina Adele Blanc-Sec, portata sul grande schermo lo scorso anno da Besson) e pubblicato in un bel formato “largo” dalla Coconino Press. Dal tratto “francese” e dal ritmo incalzante, nonostante i tanti silenzi del protagonista Martin (spietato killer, che cerca di abbandonare il mestiere per tornare dall’amata di gioventù), questa graphic novel si appoggia egregiamente su una bella storia, che ci porta, dopo un breve inizio negli Stati Uniti, in una Parigi percepibile ma davvero poco poetica. Una Parigi in cui si muovono malavitosi di vario livello, interessati a un colpo di un livello superiore, che vogliono assolutamente venga portato a termine dal nostro ormai riluttante assassino, in cui strade anonime, case anonime e alberghi sono le location dominanti, in cui il body count sale rapidamente pagina dopo pagina. Fino ad un buon finale, che giustifica il titolo dell’opera, e che rende parzialmente circolare il tutto. Completando degnamente un percorso carico di vuoto e di errori, così plausibilmente surreale da lasciare una traccia fredda nella memoria, quando prova a ritornare alle singole pagine, ai singoli eventi.

Un bel volume, da leggere se si apprezzano le storie crude e se si apprezza il tratto deciso ma graffiante di Tardi.

Tutto su Stephen King

Se siete fan sfegatati di Stephen King, e se avete davvero un certo budget da spendere (o avete qualcuno che – per farvi un regalo – è disposto a spenderlo per voi) sappiate che c’è qualcosa in giro di davvero unico: Tutto su Stephen King. Un librone – uscito per le Sperling&Kupfler l’anno scorso prima di Natale, che non si limita a proporre una bella biografia autorizzata sul Re dell’Horror mondiale, o a fornirvi un ottimo e intrigante reportage fotografico – con foto di lui in vari momenti della sua vita – ma aggiunge a tutto questo le copie di parti dattiloscritte delle opere di King – in molti casi con note a margine. Intendo: avrete l’equivalente di ciò che è uscito dalla sua macchina da scrivere (i primi lavori non erano certo realizzati con il computer) con magari i segni della moglie sulle parti da modificare, o con osservazioni e commenti scritti a mano da lui (tutto rigorosamente in inglese, ovvio, anche nell’edizione italiana). Un qualcosa da veri appassionati, in un bel formato gigante che probabilmente non starà bene con nient’altro nella vostra libreria. Uno di quei libri di cui parlare agli amici, sbavando, senza che gli amici capiscano il motivo della vostra bava. A meno che non siano anch’essi appassionati lettori di King – e in quel caso tenterete qualunque stratagemma per togliere dalle loro grinfie le delicate copie dei vostri dattiloscritti, guardandoli comunque con apprensione anche quando sfoglieranno il resto, per paura che lascino impronte sulle tante, bellissime foto.

Vale 40 euro questo libro? Difficile dirlo. Non credo che l’avrei comprato – ma è stato un regalo davvero gradito. Chiaro, ora costa un po’ meno di quanto costasse lo scorso anno (non troppo meno, sappiamo TUTTI perché…) – ma se siete fan, ma non volete investire così tanto in una cosa del genere, beh, sappiate che è facile che anche la vostra amata biblioteca pubblica possa averne una copia da portare a casa, per sognare un po’.

WMI e Mondadori

Avevo avuto questa spettacolare news (l’autorevole Writers Magazine Italia è stata incaricata della selezione di testi per alcune delle collane proposte in edicola della Mondadori) tramite facebook – ma quello che potete leggere di seguito è il primo mail “ufficiale” di come la cosa sta funzionando. Inutile dire che si deve fare tanto di cappello a questa realtà che da anni si sta muovendo nell’ambito della produzione di letteratura (e nello studio del fenomeno stesso della produzione) – ma so che di lodi ne hanno già così tante che la mia sarebbe solo un orpello in più. Sia come sia, se scrivete letteratura di genere, e se volete una chance di pubblicazione importante, vi invito a continuare a leggere quanto riporto – e a fare in autonomo le vostre valutazioni. In bocca al lupo :-)

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Il Bel Tempo – Joe Matt

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La Coconino Press (una delle case editrici italiane che si occupano di fumetti di cui ho più materiale a casa) si è occupata della pubblicazione in italiano di un’opera di Joe Matt (più noto per il sempre autobiografico PeepShow). Un’opera interessante, curiosa, sfrontata, che ci propone l’infanzia dell’autore – in un America anni 70 che si vede appena tra le righe – facendo capire a tutti che chi si occupa di fumetti normalmente qualche problema, anche solo comportamentale, è probabile che ce l’abbia :-)

Seguire le vicende del biondo occhialuto Joe, terrorizzato dai germi, spaventato dai bulli, ma pronto a ridere di altri meno fortunati di lui, o a “tradire” gli amici senza pensarci troppo (se c’è una contropartita ritenuta interessante), o ancora a trattare a pesci in faccia la mamma e il papà, lascia uno strano gusto in bocca. Si apprezza l’esasperata sincerità (il giovane Joe faceva ancora la pipì a letto ad una età in cui forse un altro genitore avrebbe consultato uno specialista), ci si gode un po’ quell’essere poco più di bimbi in una atmosfera che più che la nostra ricorda quella dei film, si studia volentieri il gioco delle immagini e le sequenze.

Un opera strana ma intrigante che forse sa far riflettere (su se stessi, sul mondo, sui propri ricordi) di quanto ci si potrebbe aspettare in un primo momento.

Drive

Drive 2011

Il protagonista de Le Idi di Marzo (Ryan Gosling) si è cimentato, sempre nell’ormai scorso anno, in un altro film che ha ottenuto critiche molto positive (93% su RottenTomatoes), intitolato Drive. Diretto dal danese Nicolas Winding Refn, qui Gosling non ha a che fare con la politica, ma con la mafia. Il protagonista – senza nome – driver-by-nature, ottimo stuntman e buon meccanico di giorno, arrotonda facendo da autista free-lance per rapine. Ma proprio quando le cose potrebbero iniziare a diventare più interessanti per lui (avrebbe infatti l’occasione di fare il pilota di NASCAR) qualcosa accade e tutto comincia ad andare in modo imprevedibile.

Impressionantemente simile, come sguardi e recitazione a Ben McKenzie (Ryan in The O.C.) in Southland, il protagonista si innamora della vicina di casa Irene (Carey Mulligan, Brigid in Walking Dead) e questo rompe il suo distacco nei confronti di ciò che lo circonda, finendo inevitabilmente nei guai.

Il film, tratto dall’omonimo romanzo di James Sallis, è ben strutturato. La violenza, che a tratti domina alcune scene, è resa normale e inevitabile da una progressione (vagamente) simile a Breaking Bad, con cui condivide lunghe scene di silenzi, momenti di attesa, dialoghi minimali ma carichi di atmosfera. Una storia abbastanza semplice, con risvolti forse non troppo originali, che diventa epica però nell’insieme. Per i personaggi, per la regia, per la notte e le giornate in una Los Angeles non Hollywoodiana. Che affascina e ricorda altri posti e altri film, facendo procedere il tutto in un ambito piacevolmente noto, mentre tutto diventa sempre più cupo e tragico. Senza quasi un motivo, o almeno senza uno reale. Bad luck, dice Bernie Rose quasi in finale. E quello sembra infatti. Solo cattiva fortuna.

Una nota merita poi Ron Perlman, qui in una parte sgradevole e importante. Perfettamente nel ruolo, con quel viso particolare, che ho avuto modo di vedere per la prima volta (credo) ne Il nome della Rosa, e che non avevo riconosciuto in HellBoy (dove è protagonista), è un malvivente credibile e un ottimo contralto per Bernie, suo socio.

The Adventures Of Tintin: The Secret of the Unicorn (PC)

Se siete, come me, appassionati lettori delle avventure di Tintin (creato dal belga Hergé) e avete avuto modo di godere della trasposizione cinematografica de Il segreto dell’unicorno, notando le tante (ma gustose) differenze con il testo originale, sappiate che c’è modo di rivivere la stessa avventura, ancora in modo diverso, grazie alla versione videogame.

Affascinato dal genere (ed è il motivo per cui per hobby mi dedico a produrre piccole cose in questo settore dell’informatica) non posso certo definirmi né un esperto né una persona aggiornata sulle tante novità in uscita, quindi il fatto che io abbia apprezzato parecchio le ore dedicate a questo prodotto non garantiscono certo che il gioco abbia un livello qualitativo all’altezza dell’anno di uscita. Ma, se la mia opinione come utente vi può comunque interessare, io vi posso dire che ho trovato questo platform 3D (per la maggior parte del tempo visto cmq di lato, come se fossimo in 2d) davvero divertente e ben fatto. I personaggi sono trasposti in modo ottimo (il confronto è con la versione cinematografica) e le animazioni, le battute, gli stacchi sono tutte perfettamente in linea con le attese.

Leggendo qualche recensione in giro potrete notare che c’è chi ha trovato il gioco monotono (ma non lo sono quasi tutti i platform – se non si amano i platform?), chi l’ha definito una realizzazione rivolta solo ai bambini, chi l’ha trovato vecchio. Ma se su quest’ultimo aspetto – come accennavo all’inizio – non posso esprimermi (sul mio computer girava ottimamente – quindi immagino sia considerabile un gioco “leggero” – di sicuro non adatto solo a PC da gamers), sugli altri due punti forse posso spendere qualche parola. Discorso “bambini”: la trama è una gradevole deviazione rispetto al fumetto e al film. Quindi è per bambini solo se lo sono anche le altre due versioni, e io non credo. Il 12 sulla custodia poi mi fa pensare che questa sia pure l’opinione del produttore – anche se nel videogioco l’alcolismo del nostro buon capitano Haddock è totalmente assente e credo che il problema sia che i personaggi fanno a cazzotti (!) tutto il tempo o quasi.

Sul discorso “monotonia” posso invece dare parzialmente ragione a chi lo afferma. Anche se chi ha realizzato il gioco ha messo un po’ di tutto a disposizione del player (guideremo un aereo e un sidecar, correremo, salteremo, tireremo cazzotti, useremo la spada e nuoteremo, e oltre al simil2d avremo aree in cui ci sarà un movimento 3d libero, le ambientazioni sono tutte ben fatte e differenti) questa NON è una avventura grafica, ma un platform. Un gioco arcade, che ha una buona percentuale del tempo di gioco legata ad un “sano” corri e salta. Se questo tipo di attività è ormai (per voi) qualcosa legata al passato a 8 bit, e ora volete stimoli multisensoriali, questo gioco probabilmente non fa per voi.

Se invece non avete smesso di amare Prince of Persia o Mario Bros, e volete giocare a qualcosa che derivi (blandamente) da quegli schemi, per espanderli in direzione del cinema / dei cartoni animati, questo potrebbe essere un buon acquisto. Io ho finito il gioco in 5-6 sedute (se non ricordo male) – ma oltre alla modalità storia c’è anche un’area solo arcade – e ci sono molti contenuti (foto/filmati) da sbloccare, che possono invogliarvi a rigiocare a qualche quadro, anche quando avrete concluso il tutto. Un bel passatempo, a mio parere, che consiglio a tutti, ma forse un must solo per veri appassionati del giornalista con il ciuffo.

American Vampire

Quanti di voi sanno che Stephen King è il coautore di un fumetto che parla di Vampiri E di CowBoys? Pochi direi, tenendo conto che quest’opera, per quel che so, è disponibile al momento solo in lingua inglese.

Se questo aspetto però non vi frena, e nel caso questa notizia non vi fosse già arrivata, vi consiglio di dare una occhiata in rete – eventualmente anche direttamente sul sito della Vertigo – perché l’ambientazione, il disegno e la storia meritano. King entra come secondo autore su un’opera di Scott Snyder che, grazie alla maestria di Rafael Albuquerque, ci catapulta in un’America remota – sviluppata su due piani temporali distinti, gestiti separatamente dai due autori – dove le colt e i fucili sono all’ordine del giorno, e dove, insieme ai “nostri” vampiri europei (ricchi e decadenti) iniziano ad esserci nuovi vampiri, americani, frutto di una evoluzione della specie. Vampiri cattivi, famelici, poco (molto poco) sberluccicosi. Dalle fattezze (quando si rivelano) allungate e animalesche, pensate per incutere terrore e morte.

L’idea di una nuova razza non è davvero male, perché ci permette di vedere reinventata la mitologia di questi esseri – contrapposti con la loro versione “nota”, non per questo non letale e potente. Ma ancora di più rende l’idea del vampiro che deriva da un fuorilegge del West (Skinner Sweet) o da una ragazza in una Hollywood anni ’20 (Pearl Jones) che scoprirà che non tutti i personaggi che si muovo intorno al mito del grande schermo sono esattamente essere umani, perché entrambe queste figure permettono di mettere su carta qualcosa di molto originale e intrigante.

Tenendo anche conto del prezzo contenuto del primo volumetto non posso che consigliarvi di dare una chance a questa uscita – non fosse altro che per il contributo di Stephen King o, ancora più importante, del fatto che la serie si è già aggiudicata un bell’Eisner Award.

Sherlock Holmes: A Scandal in Belgravia

E così, con un leggero ritardo sullo scheduling annunciato, anche il serial TV dedicato al detective nato dalla mente di Sir Arthur Conan Doyle è ricominciato. E la seconda stagione si è aperta con un episodio piuttosto interessante, intitolato A Scandal in Belgravia. Non vi dirò come continua la scena in piscina con Moriarty (che chiudeva la terza puntata della season one) ma come era prevedibile qualunque cosa capiti non impedisce al nostro eroe (l’ottimo Benedict Cumberbatch) di affrontare un nuovo e intricato caso – che vede tra l’altro coinvolta la Regina, la CIA e tale Irene Adler (Lara Pulver), dominatrix per passione e professione, che saprà stimolare un lato di Holmes che non avevamo ancora visto.

Gli attori, anche in questa nuova avventura, sono in grado di tenere egregiamente il ruolo loro assegnato, e l’ambientazione moderna (ricordo che questa Sherlock è ambientato nella Londra odierna, e che Watson, impersonato egregiamente da Martin Freeman, racconta le avventure del suo compagno sul suo blog) è davvero intrigante da confrontare con quella classica. Chiaro, il paragone con la recente uscita sul grande schermo è inevitabile, e anche se i protagonisti e la regia di Gioco d’ombre sono superiori, tutto si può dire fuorché che questa serie abbia problemi a tenere il passo. Anche qui siamo di fronte ad un prodotto di altissimo livello, frenetico, ben orchestrato, memorabile. Qualcosa non proprio per tutti (ogni tanto è davvero difficile comprendere tutte le implicazioni in quanto si osserva e qualche scena viene voglia di guardarla al rallentatore), ma da valutare assolutamente, certo, se i gialli e le spy stories proprio non sono oltre il vostro gusto.

Ah – un’ultima piccola curiosità: Freeman (Watson) sarà Bilbo Baggins nel film (di Jackson, in prossima uscita) The Hobbit. Nello stesso film ci sarà (con una parte minore) anche Cumberbatch (Holmes).

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